Mario Bava, capostipite dell’horror e del thriller italiano, è uno dei registi più importanti del panorama di genere e non solo.
Nonostante avesse a disposizione budget molto risicati, tempi di riprese limitati e attori non sempre all’altezza, è riuscito a realizzare film divenuti dei cult, che diedero vita a generi cinematografici fino ad allora inediti:
- L’horror gotico con “La maschera del demonio”.
- Il giallo all’italiana con “La ragazza che sapeva troppo”.
- Il western comico con “Roy Colt & Winchester Jack”.
- Il pulp con “Cani arrabbiati”.
- Lo slasher con “Reazione a catena”.
Oggi parleremo del suo stile, della sua poetica e di come il suo operato ancora influenzi le generazioni di oggi, senza tralasciare qualche informazione importante sulla sua vita.
“Sono un artigiano. Ho fatto il cinema come si fanno le seggiole”.
Mario Bava.
Vita in breve
Mario Bava nasce a Sanremo il 31 luglio 1914.
Grazie alla grande nomea del padre Eugenio Bava (direttore della fotografia di “Cabiria” e “Quo Vadis?”), entra fin da giovane nel mondo del cinema come creatore di effetti speciali.
Nel 1939, Bava inizia a lavorare come operatore per grandi registi come Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Dino Risi e Luigi Comencini.
Nel 1946 si sposta dietro la macchina da presa, girando una serie di brevi documentari per la Lux.
Notando il suo talento, registi da tutto il mondo cominciano a chiamare Bava per fare da maestranza, soprattutto come direttore della fotografia e assistente alla regia.
Nel 1957, Bava firma la fotografia di “I vampiri” di Riccardo Freda, considerato il primo film horror italiano. Dopo aver avuto degli screzi con il produttore, Freda abbandona il set, e Bava è costretto a terminare le riprese in qualità di regista.
2 anni dopo, Bava firma la fotografia e gli effetti speciali di un altro film di Freda, “Caltiki, il mostro immortale”, considerato il primo film di fantascienza italiano. Freda affermerà in un’intervista, che Bava girò più di metà film, facendo di lui il vero regista della pellicola.
Sempre nel 1959, Bava porta a termine le riprese di “La battaglia di Maratona”, inizialmente diretto da Jacques Tourneur e Bruno Vailati. Per sdebitarsi, i produttori del film decidono di far girare a Bava un film proprio.
Nel 1960, Bava esordisce alla regia con “La maschera del demonio”, ottenendo un discreto successo in Italia e un enorme successo all’estero.
Dopo aver esplorato vari generi cinematografici ed essersi guadagnato la stima di registi del calibro di Federico Fellini, Martin Scorsese e John Landis, Bava muore il 27 aprile 1980 per un infarto, poco prima di iniziare le riprese di un nuovo film dal titolo “Star Express”.
“Sono sicuro di aver fatto solo grandi stronzate”.
Mario Bava.
Lo stile e la poetica di Bava
Mario Bava ha sempre dato alla messa in scena la priorità.
La narrazione dei suoi film è volutamente semplice o sconclusionata, mettendo su un piedistallo l’iconica estetica che lo ha sempre caratterizzato.
Il filo rosso che lega la filmografia di Bava, va ricercato nella tecnica e nella forma, e non nella poetica, di cui è carente ma non privo.
Tecnica ed estetica
Mario Bava è noto principalmente per un uso espressionistico del colore.
Film come “Sei donne per l’assassino” e “Terrore nello spazio” mostrano colori intensi e forti, che quasi ipnotizzano lo spettatore.
La luce nei suoi film non è mai realistica, proviene quasi sempre da fonti artificiali (si pensi a “I tre volti della paura”), accentuando l’aria surreale e onirica che si respira nelle sue opere.
La ricerca sull’immagine visiva di Bava, è costante. D’altronde, il suo passato di operatore, esperto di trucchi cinematografici e di effetti speciali, lo porta a considerare il lato artigianale e tecnico delle sue pellicole.
Modellini, filtri e inganni ottici, permettono a Bava di compensare i limiti di budget e di ottenere, con pochi mezzi, risultati fantasiosi.
La sua grande capacità è quella di saper interpretare il materiale che gli viene fornito, imponendo ai film la sua personalità. Predilige il trucco e l’illusionismo, divertendosi a stupire lo spettatore con effetti straordinari, sia fotografici che speciali.
Anche le scenografie sono una parte importante del lavoro di Bava, soprattutto nei suoi horror gotici. I fondali sono dipinti da lui stesso e gli oggetti di scena sono molto poveri e in quantità minime, ma Bava, attraverso il suo ingegno e la sua tecnica, fa sembrare come se tutto sia girato con mezzi di qualità.
Bava riesce ad alterare la geografia dei luoghi solamente spostando un paio di oggetti, facendo pensare allo spettatore di essere in un’altra location (si pensi al bosco di “La maschera del demonio”, dove i personaggi in realtà percorrono sempre lo stesso tratto, ma cambia la disposizione degli alberi).
Lo stilema più noto di Mario Bava è sicuramente lo zoom, espediente molto utilizzato nel cinema di genere italiano degli anni sessanta e settanta. Bava è stato uno dei primi registi italiani ad utilizzarlo, e lo inserisce nei suoi film spesso in maniera sconsiderata (si pensi a “5 bambole per la luna d’agosto”).
Il morboso amore per il dettaglio è percepibile in ogni sua pellicola: dalle panoramiche ogni volta che si arriva in una nuova location, alla macchina da presa incollata al volto dei personaggi e ai piccoli oggetti, e infine alla composizione definitiva dell’inquadratura.
Il doppio e il falso
Una tematica predominante del cinema di Mario Bava, che accentua la sua forte influenza espressionista, è il tema del doppio.
In molte pellicole, i personaggi di Bava hanno il loro corrispettivo doppelganger (“La maschera del demonio, “La frusta e il corpo”, “Lisa e il diavolo”), che rappresenta la loro parte cattiva e oscura.
Bava non ha mai negato il suo pensiero negativo verso l’essere umano, considerandolo un essere spregevole per natura. Non è un caso che i suoi film siano privi di personaggi votati al bene, e che i veri protagonisti siano i cattivi.
Ogni personaggio è falso, come è falso tutto il cinema di Bava.
Come accennavamo in precedenza, a Bava non interessava la narrazione nei suoi film, ponendoli volutamente su un piano sconnesso dalla realtà (si pensi a “Lisa e il diavolo”, in cui Lisa continua ad apparire anche dopo la sua morte come se nulla fosse, o la narrazione sconclusionata di “Operazione paura”).
Attraverso l’assenza di narrazione e un’estetica surrealista, Bava vuole mettere in chiaro cos’è per lui il cinema: pura finzione, al quale lo spettatore crede fino alla fine del film (si pensi al finale di “I tre volti della paura”).
Conclusione
Mario Bava ha saputo raccontare l’orrore come pochi registi al mondo, mettendo le basi per un’estetica e una narrativa che resteranno nell’immaginario collettivo dei cineasti.
Dario Argento, Roger Corman e Tim Burton, sono sicuramente i registi più influenzati dal cinema di Mario Bava.
Nonostante lo scarso successo di pubblico e critica (che lo ha rivalutato in seguito alla sua morte), Mario Bava è sempre stato un punto di riferimento per tutti gli addetti ai lavori, riuscendo a farsi notare fra i registi più importanti e influenti della storia del cinema.
Filmografia
- La maschera del demonio (1960)
- Le meraviglie di Aladino, co-regia con Henry Levin (1961)
- Ercole al centro della Terra (1961)
- Gli invasori (1961)
- La ragazza che sapeva troppo (1963)
- I tre volti della paura (1963)
- La frusta e il corpo (1963)
- Sei donne per l’assassino (1964)
- La strada per Fort Alamo (1964)
- Terrore nello spazio (1965)
- I coltelli del vendicatore (1966)
- Operazione paura (1966)
- Le spie vengono dal semifreddo (1966)
- Diabolik (1968)
- 5 bambole per la luna d’agosto (1970)
- Il rosso segno della follia (1970)
- Roy Colt & Winchester Jack (1970)
- Reazione a catena (1971)
- Gli orrori del castello di Norimberga (1972)
- Quante volte… quella notte (1972)
- Lisa e il diavolo (1973)
- Cani arrabbiati (1974)
- Schock (1977)